Basta cliché, stigma e narrazioni tossiche. Intervista alle sorelle Maria Chiara ed Elena Paolini

Maria Chiara ed Elena Paolini insieme

Blogger, attiviste e formatrici accusano il mondo dei media di offrire una rappresentazione poco realistica della disabilità. E ai giornalisti italiani dicono: “Conoscete poco le persone disabili rispetto ai vostri colleghi stranieri”.

ROMA – Voci critiche su informazione e disabilità dai tempi della diffusione a livello virale della parodia di “Occidentali’s Karma”, Maria Chiara ed Elena sono sorelle, hanno rispettivamente 28 e 23 anni e vivono a Senigallia. Sono entrambe attiviste per i diritti delle persone disabili (loro si spostano su carrozzine elettriche) e scrivono sul blog Witty Wheels di disabilità, stereotipi, discriminazioni e rappresentazioni culturali. D’altra parte che avessero più di qualcosa da ridire su come i media rappresentano le persone con disabilità e le loro vite si era capito da un pezzo. Da quando, nel 2017, avevano giocato sul brano di Francesco Gabbani, fresco di vittoria a Sanremo, per chiarire come vedevano loro le cose: la tv è la fiera dei cliché, dove la grande assente è proprio la normalità soppiantata da luoghi comuni e piagnistei. Oggi Maria Chiara ed Elena fanno formazione su questi temi, collaborando con varie realtà femministe o legate ai diritti delle persone disabili, e hanno fondato la rete di attivisti Liberi di Fare per il diritto all’assistenza personale autogestita per chi non è autosufficiente.

Come giudicate la rappresentazione giornalistica della disabilità e il linguaggio in uso nel mondo dell’informazione?
Maria Chiara: Il linguaggio giornalistico riflette la società (e allo stesso tempo la influenza). Per parlare di linguaggio giornalistico è, quindi, fondamentale osservare la condizione delle persone disabili nel nostro Paese, capire a che punto siamo. Chi è disabile vive ancora una condizione di subalternità a livello di diritti: per molti è difficile lavorare, a volte persino uscire di casa a causa della scarsità di servizi adeguati. Inoltre in molte associazioni legate alla disabilità la rappresentanza non è adeguata: è un paradosso, ma sono ancora poche le associazioni con una maggioranza di persone disabili nel direttivo. Arriviamo quindi alle conseguenze sui giornalisti: loro, come molti, hanno relativamente poca esposizione alle persone disabili rispetto ai loro colleghi americani o svedesi. Dunque è più “facile” cogliere delle rappresentazioni legate al pietismo o alla sovra-determinazione, piuttosto che voci autentiche. Alcuni giornalisti si fermano a questo tipo di narrazioni e le riproducono, altri invece, con la responsabilità e il senso critico che dovrebbero essere parte intrinseca del loro lavoro, ascoltano le voci delle persone disabili, l’unico modo per ottenere un linguaggio aggiornato, rispettoso e inclusivo.

Cosa intendete per rappresentazione realistica nei media e perché è importante?
Elena: Una rappresentazione è realistica quando non è viziata da stereotipi e narrazioni tossiche e cerca di raccontare un’esperienza nella sua complessità senza appiattirla e sminuirla. Avere una rappresentazione realistica quando si tratta di minoranze è particolarmente importante, perché ciò che vediamo nei media – specialmente se abbiamo poche conoscenze dirette di quella minoranza – influenza il nostro pensiero. Se vediamo continuamente la disabilità trattata come tragedia finiremo per crederci, con tutte le conseguenze del caso sulla vita reale. Per esempio se la politica non rispetta i diritti delle persone disabili, questo non sarà valutato come emergenza inaccettabile, perché siamo stati abituati a vedere le vite delle persone disabili come vite di serie B. La rappresentazione influenza la cultura, e ha quindi un effetto diretto sulla vita quotidiana: ecco perché è importante che sia fatta bene.

Cosa intendete quando parlate di modello medico versus modello sociale?
Maria Chiara: Il modello sociale della disabilità, coniato da Mike Oliver nel 1981, è un modello sociologico secondo cui la disabilità è determinata più dagli ostacoli posti da un contesto inaccessibile che dalla condizione fisica o mentale in sé: bisogna intervenire dunque per rimuoverli. Questa concezione della disabilità si contrappone a quello che è stato chiamato modello medico o individuale, per cui la disabilità è vista come problema individuale, spesso come tragedia. Il modello medico vuole intervenire sulla persona per “normalizzarla” il più possibile, a livello esclusivamente di cura o riabilitativo. Per il modello sociale, invece, si deve intervenire per abbattere le barriere strutturali della società. Secondo il modello sociale, per esempio, una persona autistica vivrà maggiormente l’impatto di non avere dei determinati servizi come la terapia occupazionale o la logopedia o una tecnologia per comunicare rispetto al non essere neurotipico in sé. È un approccio fondamentale da conoscere e applicare in un’’0pottica di rivendicazione dei diritti.

Avete spesso parlato di “abilismo”: che cosa significa?
Maria Chiara: L’abilismo (dall’inglese ableism) è un sistema di pratiche e stereotipi per cui, per esempio, alcuni si rivolgono alle persone non disabili che sono con me e non mi parlano direttamente perché io sono in carrozzina. Altri si stupiscono che una persona con la sindrome di Down lavori o delle necessità di chi ha la dislessia, l’Adhd o la fibromialgia e rifiutano di mettere in atto i cosiddetti accomodamenti ragionevoli in scuole, università o luoghi di lavoro. Molte app per cellulari e i loro aggiornamenti non sono accessibili alle persone cieche, mentre il percorso per andare a vivere in una struttura per persone disabili è estremamente più facile rispetto a farsi assegnare fondi per poter vivere liberamente a casa propria con assistenti che lavorano su turni. Insomma, l’abilismo è la discriminazione verso le persone disabili, strutturale e sistemica, che attraversa la cultura, l’opinione comune, le istituzioni e le leggi. È l’idea che i corpi e le menti disabili siano il “problema” l’idea che permette di controllare la tua vita agli enti che dovrebbero aiutare te persona disabile, di pensare a te come a una “non persona” di orwelliana memoria o, peggio, farti credere di esserlo.

Siete state tra le prime a introdurre nel dibattito pubblico italiano il concetto di “inspiration porn” elaborato per la prima volta dall’attivista australiana Stella Young. In che consiste?
Maria Chiara: Tradotto sarebbe la “pornografia motivazionale”: Stella Young ha usato questo termine per evidenziare che spesso si assiste a un vero e proprio uso e consumo delle persone disabili e delle loro storie a beneficio delle persone non disabili. Si tratta delle storie strappalacrime che parlano di persone disabili che si laureano, fanno sport e lavorano, insomma fanno cose ordinarie che però vengono raccontate con paternalismo ed eccezionalismo, con il solo intento di far “battere i cuori” degli spettatori e dei lettori. L’inspiration porn si regge sulle basse aspettative nei confronti di chi è disabile. Inoltre, di solito, non si fa cenno ai problemi strutturali che devono affrontare le persone con disabilità: esiste un’unica narrazione monolitica e fuorviante sul superare i propri limiti con coraggio e determinazione. E tale narrazione ha delle ricadute importanti sulla percezione delle persone disabili: in un certo sentire comune, ci si aspetta di essere ispirati da esse, semplicemente per via della loro disabilità

Quale può essere il rapporto tra i media e i crimini di odio?
Elena: Spesso nelle notizie di omicidi delle persone disabili da parte di genitori, partner o caregiver il crimine viene normalizzato. Si empatizza più con l’assassino che con la vittima: insomma, un po’ quello che succede con i femminicidi. Si inquadra l’omicidio come “comprensibile”, si definisce l’uccisore “devoto e amorevole”. Si porta avanti una visione distorta dell’amore quando si parla di “affetto tramutato in dolore”, spesso si deumanizza la vittima. Viene dato tanto spazio alla descrizione della condizione medica della vittima – e a quanto fosse pesante la sua disabilità –, mentre poco solitamente viene detto su chi fosse e cosa facesse nella vita: si dà l’impressione che fosse una vita comunque non buona. Se la persona uccisa non fosse disabile la condanna sarebbe unanime. Non ci sarebbero l’empatia e i tentativi di capire, giustificare o spiegare l’omicidio. Ma c’è un doppio standard, perché viviamo in un mondo dove le vite delle persone disabili hanno meno valore delle vite delle persone non disabili, dove alcuni pensano meglio morti che disabili, e in cui c’è ancora l’idea di vite indegne di essere vissute. Una copertura mediatica di questo genere manda il messaggio che un omicidio sia quasi una normale risposta a qualsiasi problema che uno può sperimentare quando si sta prendendo cura di una persona disabile. E se i media giustificano l’omicidio aumenta la possibilità che altri omicidi si ripetano.

Perché viene considerato accettabile che le persone disabili siano spesse vittime di segregazione?
Elena: La discriminazione verso le persone disabili non si limita certo al bullismo, agli stereotipi o all’occupazione dei parcheggi riservati. Come tutte le altre discriminazioni, è sistemica e pervasiva. C’è la tendenza a pensare e progettare ambienti segreganti o istituzionalizzanti a causa dei quali il vivere liberamente o con minori restrizioni, per una persona disabile, diventa un’eccezione. Sono pratiche così radicate che spesso non vengono contestate o non si pensa a trovarne di migliori. Semplificando un po’, l’ideologia legittimizzante dietro alla tendenza alla segregazione è che le persone disabili abbiano vite di serie B. Questo porta al permanere di situazioni che vanno contro le libertà fondamentali, tipo un parziale accesso al trasporto e ai luoghi pubblici o l’esistenza delle strutture residenziali per le persone disabili che non hanno altre fonti di assistenza: posti dove non hai controllo sulla tua vita, su chi tocca il tuo corpo, strappato dai tuoi cari e dal tuo ambiente solo perché sei disabile e hai bisogno di assistenza. Si tratta di condizioni che non sarebbero considerate accettabili per le persone non disabili, eppure per le persone disabili lo sono.

Potete fare alcuni esempi concreti di linguaggio giornalistico discrimitorio?
Maria Chiara: Si possono fare tanti esempi. In un articolo sulla morte di un uomo anziano con sindrome di Down si dice che era la «mascotte» della casa di riposo dove viveva, e che «è stato uno dei Down più longevi», con un linguaggio disumanizzante.
Un altro articolo ha un sottotitolo che recita: «Tommaso [nome di fantasia] 14 anni deve affrontare le superiori. Il preside chiede aiuto alla madre. Che lascia il lavoro e torna in classe. Una storia di inclusione e forza di volontà». Queste poche righe riflettono il tono dell’articolo, in cui non viene fatto cenno all’ingiustizia dietro questa storia. Una situazione in cui una madre per assistere il figlio a scuola è costretta a lasciare il lavoro a causa dell’inadeguatezza dei servizi viene definita «inclusiva». Tutto si riduce a una storia di forza di volontà. Non dargli il tono di un articolo di denuncia significa giustificare chi è responsabile del fatto che “Tommaso” non ha assistenza. Tra l’altro, l’articolo inizia così: «Quando si introduce un elemento esterno in un sistema che si trova in stato di quiete, questa si interrompe entrando nel caos fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio. (…) Il quattordicenne [Tommaso] è l’elemento esterno in questione (…). [Tommaso], infatti, ha una forma di autismo piuttosto grave». Non è accettabile parlare di una persona come di «elemento esterno» a causa della sua disabilità, qualsiasi sia l’intento: lo rende qualcosa di “altro”.
Un ultimo esempio riguarda un servizio in tv su una donna in carrozzina elettrica che si sposa con un uomo non disabile: come da copione in questi casi, il tono è degradante nei confronti di chi è disabile. Le parole usate sono «Ha voluto coronare il suo sogno, si è voluta sposare, anche per abbattere la barriera della sua malattia». In questo caso la malattia è inserita a sproposito: accade spesso che le cose fatte da persone disabili vengano riportate come se le facessero per abbattere la barriera della propria disabilità. Il titolo del servizio è “Le nozze speciali di [Giulia]”, come se tutto ciò che riguarda le persone disabili fosse qualcosa di “diverso” e speciale. Dovremmo chiederci perché appare accettabile che si parli di “questo matrimonio così speciale” solo perché uno dei due sposi è in carrozzina. E poi c’è un altro concetto ricorrente in questi casi, l’idea che si tratti di un amore in qualche modo diverso da quello delle coppie in cui non ci sono persone disabili. I giornalisti commentano: «Questa sì che è una storia d’amore» e «Quante volte noi usiamo la parola amore a sproposito. Questo è l’amore vero».
C’è poi la concezione di disabilità come tragedia: «Nella sfortuna più assurda di questa ragazza, lei in realtà si sente fortunata». Non mancano infine le considerazioni sul marito non disabile, che per aver sposato lei viene definito un “eroe”. Usare questa parola porta avanti implicitamente l’idea che avere lei come moglie è un peso, un fardello: è evidente la svalutazione delle vite delle persone disabili. Sentiamo queste parole: «[Marco] si è dimostrato un grande eroe, perché non è facile. (…) È una scelta non facile e non comune». Tutti questi sono toni discriminatori, eppure comuni sui media.

È possibile disegnare una mappa delle parole e giuste e delle parole sbagliate quando si tratta di raccontare disabilità? O, entrando più nello specifico, ci sono parole-espressioni da preferire e altre da evitare?
Maria Chiara: Più che parole giuste o sbagliate ci sono, da una parte, le parole adeguate, dall’altra, quelle sminuenti o marginalizzanti. La norma in questo caso va ricercata nella community delle persone disabili e nell’accademia dei disability studies (gli studi sulla disabilità, diffusi soprattutto in area anglo-americana). Esistono delle espressioni da evitare, che pure si trovano a volte sulla stampa e che non sono neutrali ma sono legate al pietismo, e fanno sembrare che le persone disabili siano qualcosa di “altro”: persone speciali, angeli, affetto da disabilità, malati, meno fortunati, persone che soffrono sono tutti termini da evitare.
Inoltre, secondo gran parte delle persone in carrozzina, “costretto su una carrozzina” andrebbe sostituito da “che usa una carrozzina”, “in carrozzina” o analoghi, perché la carrozzina è solo uno strumento per la mobilità. “Persona con disabilità” e “persona disabile” sono entrambe accettate dalla community, con delle preferenze al suo interno. “Diversamente abile”, “handicappato” o “portatore di handicap” hanno avuto la loro storia ma ormai non vengono più sentiti come propri da molte persone disabili. Non si dice persona “Down” ma “con sindrome di Down”.
Per essere sicuri, è necessario ascoltare le preferenze dei diretti interessati.

Allargando lo sguardo oltre il mondo dell’informazione, vi sembra che siano dei campi culturali particolarmente all’avanguardia, tipo cinema, tv, serie tv, letteratura?
Elena: Non guardiamo serie tv, ma sentiamo parlare abbastanza bene di alcune. Per quanto riguarda la letteratura contemporanea sicuramente si stanno facendo passi avanti: certamente se pensiamo alla letteratura meno recente è ovvio che rifletta la concezione della disabilità dell’epoca (sto pensando a Cuore, Pollyanna e il Giardino Segreto – giusto per citare i primi tre che mi vengono in mente – che propongono una concezione della disabilità alquanto deleteria).

E per contro, vi pare che ci siano dei campi particolarmente arretrati?
Elena: Per quanto riguarda la televisione prevalgono ancora gli approcci tragici alla disabilità, che a quanto pare fanno audience. Per quanto riguarda il cinema, in generale i film che trattano la disabilità in modo realistico sono davvero pochi. Prevale inoltre la tendenza a ingaggiare attori non disabili per interpretare personaggi disabili, come se non ci fossero attori disabili disponibili e come se la disabilità si potesse “imitare” senza farne – di fatto – un mimo. Sto pensando a “Rain Man”, “Mi chiamo Sam”, “Forrest Gump”, “Io prima di te” (in questo caso è orribile anche il messaggio), “My name is Khan” e a tanti altri film in cui gli attori non sono disabili. Un po’ come quando, per interpretare i nativi americani nei film Western, si ingaggiavano bianchi opportunamente truccati. Una cosa buffa, poi, è che moltissimi attori hanno vinto l’Oscar quando hanno interpretato un personaggio disabile.

Qual è la rappresentazione della disabilità che vi piacerebbe trovare sui media?
Elena: Una rappresentazione senza sensazionalismo, senza morbosità, realizzata con la consulenza delle persone disabili (le migliori esperte di se stesse). Una rappresentazione che aiuti nel percorso verso i diritti e che non ne sia d’intralcio.

Tratto da: https://www.superabile.it/cs/superabile/tempo-libero/20191100-intervista-alle-sorelle-paolini.html